La consulenza tecnica di parte e implicazioni amico vs nemico
di
Adriana Viotti
di
Adriana Viotti
Di solito inizia tutto più o meno così:
arriva la telefonata di un avvocato che chiede appuntamento per parlare di un caso che necessità di un consulente tecnico di parte esperto in psicologia. All’appuntamento l’avvocato si presenta con il cliente che porta con sé un voluminoso fascicolo contenete atti, foto, verbali, e quanto di più “decisivo” possibile, a sostegno della propria posizione. Una volta accettato l’incarico è chiaro: sono loro i tuoi amici!
Dunque, si avviano le operazioni peritali (OOPP), contesto in cui si ha modo di conoscere l’altra faccia della medaglia, i nemici ovvero la controparte… ma già da questo momento, il setting stesso suggerisce che l’approccio categoriale attraverso cui la nostra mente tenta di mettere ordine all’infinita mole di impulsi che ci arrivano dall’esterno, non può escludere la possibilità che i confini sfumino.
A dirigere l’andamento degli incontri è, infatti, una presenza tanto autorevole quanto criptica: il CTU. Lui non è amico di nessuno, solo del Giudice, di cui dovrebbe costituire la longa manus (per usare un latinismo come piace tanto agli “uomini di legge”). Questa posizione genera una sorta di alone di ufficiale inattaccabilità attorno al CTU, al punto che sarà molto difficile non cadere nel tentativo di diventare suo amico. Così durante i colloqui con ogni probabilità sia le parti che i rispettivi CTP staranno ben attenti a non mettere il piede in fallo, perché se lui, il perito del Giudice, diventa tuo nemico, è facile che anche gli esiti della perizia siano avversi.
Inizialmente, allora, sembra aleggiare il tacito accordo tra tutti gli attori in causa, che si agirà nel solo interesse di tutelare i minori (poiché perlopiù la presenza di noi psicologi è richiesta in ambito minorile o in quello civile-familiare), indipendentemente da chi ha ragione e chi ha torto, la verità processuale, che dovrebbe restare interesse esclusivo del Giudice.
Col procedere delle operazioni, però, si assiste spesso a un particolare fenomeno: i CTP ( psicologi!) iniziano a porre domande tendenziose alla controparte e a parlare come se fossero avvocati o peggio giudici… è strano, come quando si ascoltano persone con tratti somatici afro-americani o asiatici, che parlano dialetto napoletano o romanesco… è strano, consueto ma strano… sembra quasi che due livelli di comunicazione non si allineino. E avviene anche il contrario, cioè che durante i colloqui con il cliente e l’avvocato, quest’ultimo inizi a parlare di Sindrome di Alienazione Genitoriale come se fosse il suo pane quotidiano riconoscerne le manifestazioni… si immagini la reazione di uno psicologo che è comunque prima di tutto un clinico!!!
Alla fine però, se si vuole restare amici del proprio cliente e del suo avvocato prima o poi si dovrà cominciare a parlare “avvocatese” e sopportare che l’avvocato parli “psicologese”. A volte capita che dapprima si tenti di contenerli e tenerli a distanza il più possibile, e quasi certamente si trasformeranno in nemici, ma poi, pensandoci si conclude che in fondo, in quel momento stai lavorando per quel cliente e presto o tardi si dovrà, nei limiti dell’accettabilità etica e deontologica, colludere almeno un po’ con le sue richieste e aspettative. È il momento in cui nella stanza del CTU ci si troverà a porre domande che l’anima clinica dello psicologo ritiene insignificanti e mediocri, ma a cui il cliens tiene tanto. In questo modo cliente e avvocato osanneranno il CTP come un grande amico, in virtù della portentosa prova che l’avvocato, completamente e spudoratamente colluso con le richieste e le aspettative dell’assistito, crede di aver raccolto con quelle dichiarazioni.
D’altra parte, intanto, il CTU osserverà il consulente tecnico di parte (psicologo!) con sdegno e con la superiorità di chi non deve scendere a compromessi e può mantenere uno sguardo clinico autentico senza dover forzare le lettura degli eventi e delle dinamiche che caratterizzano una determinata situazione “per lavoro”. Beato lui però! Lui è super partes, è più facile così. Lui è amico del Giudice! Chi non vorrebbe esserlo?!
Ma un’altra soluzione c’è. Si può anche svolgere il proprio lavoro di CTP portando la propria esperienza clinica e la propria onestà intellettuale, seguire le operazioni e convenire con le conclusioni del CTU, anche se avverse alla posizione del cliente. Arriverà il momento di presentare la nota spese, probabilmente durante l’ultimo incontro dal momento che la CTU sarà stata chiusa, e una domanda aleggerà per tutto il tempo nello studio del CTP: “ma io, che ti sto pagando a fare?”. Sarà la domanda che leggiamo nell’espressione perplessa del nostro cliente?
Una persona saggia mi dice spesso: “Adriana, la vita è sempre una coperta troppo corta!”
arriva la telefonata di un avvocato che chiede appuntamento per parlare di un caso che necessità di un consulente tecnico di parte esperto in psicologia. All’appuntamento l’avvocato si presenta con il cliente che porta con sé un voluminoso fascicolo contenete atti, foto, verbali, e quanto di più “decisivo” possibile, a sostegno della propria posizione. Una volta accettato l’incarico è chiaro: sono loro i tuoi amici!
Dunque, si avviano le operazioni peritali (OOPP), contesto in cui si ha modo di conoscere l’altra faccia della medaglia, i nemici ovvero la controparte… ma già da questo momento, il setting stesso suggerisce che l’approccio categoriale attraverso cui la nostra mente tenta di mettere ordine all’infinita mole di impulsi che ci arrivano dall’esterno, non può escludere la possibilità che i confini sfumino.
A dirigere l’andamento degli incontri è, infatti, una presenza tanto autorevole quanto criptica: il CTU. Lui non è amico di nessuno, solo del Giudice, di cui dovrebbe costituire la longa manus (per usare un latinismo come piace tanto agli “uomini di legge”). Questa posizione genera una sorta di alone di ufficiale inattaccabilità attorno al CTU, al punto che sarà molto difficile non cadere nel tentativo di diventare suo amico. Così durante i colloqui con ogni probabilità sia le parti che i rispettivi CTP staranno ben attenti a non mettere il piede in fallo, perché se lui, il perito del Giudice, diventa tuo nemico, è facile che anche gli esiti della perizia siano avversi.
Inizialmente, allora, sembra aleggiare il tacito accordo tra tutti gli attori in causa, che si agirà nel solo interesse di tutelare i minori (poiché perlopiù la presenza di noi psicologi è richiesta in ambito minorile o in quello civile-familiare), indipendentemente da chi ha ragione e chi ha torto, la verità processuale, che dovrebbe restare interesse esclusivo del Giudice.
Col procedere delle operazioni, però, si assiste spesso a un particolare fenomeno: i CTP ( psicologi!) iniziano a porre domande tendenziose alla controparte e a parlare come se fossero avvocati o peggio giudici… è strano, come quando si ascoltano persone con tratti somatici afro-americani o asiatici, che parlano dialetto napoletano o romanesco… è strano, consueto ma strano… sembra quasi che due livelli di comunicazione non si allineino. E avviene anche il contrario, cioè che durante i colloqui con il cliente e l’avvocato, quest’ultimo inizi a parlare di Sindrome di Alienazione Genitoriale come se fosse il suo pane quotidiano riconoscerne le manifestazioni… si immagini la reazione di uno psicologo che è comunque prima di tutto un clinico!!!
Alla fine però, se si vuole restare amici del proprio cliente e del suo avvocato prima o poi si dovrà cominciare a parlare “avvocatese” e sopportare che l’avvocato parli “psicologese”. A volte capita che dapprima si tenti di contenerli e tenerli a distanza il più possibile, e quasi certamente si trasformeranno in nemici, ma poi, pensandoci si conclude che in fondo, in quel momento stai lavorando per quel cliente e presto o tardi si dovrà, nei limiti dell’accettabilità etica e deontologica, colludere almeno un po’ con le sue richieste e aspettative. È il momento in cui nella stanza del CTU ci si troverà a porre domande che l’anima clinica dello psicologo ritiene insignificanti e mediocri, ma a cui il cliens tiene tanto. In questo modo cliente e avvocato osanneranno il CTP come un grande amico, in virtù della portentosa prova che l’avvocato, completamente e spudoratamente colluso con le richieste e le aspettative dell’assistito, crede di aver raccolto con quelle dichiarazioni.
D’altra parte, intanto, il CTU osserverà il consulente tecnico di parte (psicologo!) con sdegno e con la superiorità di chi non deve scendere a compromessi e può mantenere uno sguardo clinico autentico senza dover forzare le lettura degli eventi e delle dinamiche che caratterizzano una determinata situazione “per lavoro”. Beato lui però! Lui è super partes, è più facile così. Lui è amico del Giudice! Chi non vorrebbe esserlo?!
Ma un’altra soluzione c’è. Si può anche svolgere il proprio lavoro di CTP portando la propria esperienza clinica e la propria onestà intellettuale, seguire le operazioni e convenire con le conclusioni del CTU, anche se avverse alla posizione del cliente. Arriverà il momento di presentare la nota spese, probabilmente durante l’ultimo incontro dal momento che la CTU sarà stata chiusa, e una domanda aleggerà per tutto il tempo nello studio del CTP: “ma io, che ti sto pagando a fare?”. Sarà la domanda che leggiamo nell’espressione perplessa del nostro cliente?
Una persona saggia mi dice spesso: “Adriana, la vita è sempre una coperta troppo corta!”